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Ricordi d'Africa

Attività umanitarie

Sono stato 6 volte a Tanguietà e da quattro anni faccio il chirurgo plastico ad Afagnan. Gli abbracci, il ben tornato, le lacrime delle suore cui mi sono affezionato... affettuosi convenevoli che da 10 anni si ripetono, affettuosi convenevoli che da 10 anni preludono a frenetiche attività. Ogni volta è così, e non vorrei che fosse altrimenti.

Ogni volta è così, e non vorrei che fosse altrimenti.
Fin dall’arrivo si comincia a lavorare. Visite su visite, camion che ti scaricano i pazienti rossi della terra dell’altipiano. Bisogna decidere chi operare e chi no. Chi è in grado di sostenere un intervento e chi può non farcela. Non è facile.
La sala operatoria di Tanguiétà ha due tavoli operatori che talvolta per necessità, come per magia, si moltiplicano. Una volta ho contato all’opera nella stessa sala 5 tavoli operatori, 8 chirurghi, 3 ferriste e 3 persone di servizio!
Ad Afagnan le sale operatorie sono ben 2, 3 tavoli operatori… e la medesima magia.
Operare in Africa è diverso.
È diverso il clima, diverse le patologie, diversa la risposta dell’organismo, diversi i tempi operatori.

Tutto cambia, e non solo per le condizioni precarie. Bisogna modificare la metodica d’intervento per risolvere il problema nel più breve tempo possibile, con il minor numero di interventi – difficilmente il paziente tornerà a farsi controllare – e con il minor tasso di complicanze. Quello che si fa in due o più interventi, a distanza di mesi, lì bisogna farlo in una volta sola.
Ci sono poi patologie che da noi rappresentano la rarità, il “grande caso chirurgico”. Là sono la routine: malformazioni vascolari enormi, malformazioni del cranio di cui ti chiedi la reale vastità, tumori grandi come cavolfiori…
A Tanguiéta mi mordevo le dita perché la radiologia non riusciva a chiarirmi le idee sulla reale estensione di patologie strane e bizzarre; ad Afagnan sono fortunatamente accompagnato da due anni da una brillante radiologa con grande esperienza nel campo della radiologia pediatrica.
Mi dico: se non lo faccio (o se non oso) che ne sarà?
Se hai bisogno in extremis di un chirurgo vascolare o di un neurochirurgo non c’è: lo devi fare tu. O lo sai fare, o fai comunque del tuo meglio.

Mi armo di coraggio e parto.
Il mio anestesista di Tanguiétà si chiamava Basil. Non era un vero anestesista, non era neppure un medico, non aveva diploma e non addormentava solo la gente: era anche responsabile della farmacia e proprietario del piccolo bar-dancing che il sabato sera si animava di gente. Non aveva idea della biochimica ma sapeva che se il sangue diventava scuro era brutto segno. Tutti i pazienti che mi ha addormentato, anche i neonati malnutriti, si sono svegliati. E questo era bene.
Il mio anestesista di Afagnan si chiama Isidore, anche lui profonde il massimo dell’impegno per affrontare nel miglior modo possibile situazioni spesso non facili.
Oltre il 10% della popolazione è sieropositivo. Quindi in sala operatoria vanno adottate le massime precauzioni per non tagliarsi ed evitare il contatto con materiali biologici e, per finire, devi evitare come la peste le complicanze, in un contesto che invece sembra divertirsi a favorirle.
Ma se parti lasciando una complicanza… che disastro!
In pochi giorni devi portare a termine il maggior numero di interventi possibile.

Ogni anno macino circa 50 interventi maggiori, per la gran parte malformazioni pediatriche.
Talvolta mi sento dire: ma chi te lo fa fare di partire, giocarti un mese di ferie dell’Ospedale, per che cosa poi? Rido, e mi torna la nostalgia.
L’Africa, quest’Africa (non quella edulcorata dei safari, delle mega jeep lussuose, dei villaggi vacanze) è un crogiuolo di umanità, di arricchimento personale, talvolta di sofferenza, spesso di grande gioia.
Mi è capitato di dover fare dei cesarei: che emozione, per un chirurgo plastico, far nascere un bambino!
Un giorno mi hanno recapitato un camion carico di adulti con labbri leporini, una ventina di persone.
Una settimana dopo è ripartito. Ma i labbri erano tutti chiusi.
Queste sono le vere soddisfazioni della vita.

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